11^ Domenica del T.O.

Del’ignavia o del regno di Dio

In quel tempo, Gesù diceva: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura». Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra». Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa (Marco 4, 26-34).

Che Gesù fosse uno strano personaggio vi sono vari indizi a suggerirlo. Anche in Marco ce ne è uno (4,36): «Con la gente parlava sempre in parabole; quando però si trovava con i suoi discepoli spiegava loro ogni cosa». Un fare da cospiratore che avvalora l’ipotesi che Gesù, consapevole di quanto la buona novella avesse un che di sovversivo, in pubblico non parlava chiaro; non a caso aggiungeva: «Chi ha orecchie per intendere intenda».

La modificazione dello stato presente delle cose, che pare non dovesse piacergli, la chiamava Regno di Dio. Quanto al come costruirlo suggeriva la strategia descritta da Marco (4,26-30) che a me sembra consonante con il criterio gramsciano dell’ottimismo della volontà, tipicamente rivoluzionario: anche se tutto è contro di te, anche se con il lume della ragione non riesci a vedere vie di scampo, non ti abbattere, non cedere alla depressione, ma fai uno sforzo di volontà, abbi fede in te, nella vita, nei tuoi ideali e mettiti a lavorare per i tempi lunghi.

Cosa dicono di diverso i versetti di Marco? In linguaggio moderno suonerebbero così: «Tu non sarai così stolto da spargere le sementi a caso, senza badare a dove cadono; ma non sarai nemmeno tanto stolto da non sapere che non tutti i semi germoglieranno, perché così è fatta la vita. Non per questo rinuncerai a seminare; se per tale motivo tutti/e rinunciassero a seminare non spunterebbero più piante, né alberi e nessuna pianta di senape sorgerebbe. Tu fa’ quel che puoi al meglio che puoi e non preoccuparti se sarai tu o altri a raccogliere, perché nella vita ci vuole sia chi semina sia chi raccoglie. Se non raccoglierai tu, lo farà chi verrà dopo di te».

Spes contra spem ha tradotto Paolo di Tarso: nutri la speranza contro ogni evidenza. Batti il pessimismo della ragione con l’ottimismo della volontà, sembra fargli eco Gramsci. Guardiamoci intorno: solo in Italia 18 milioni di persone sono a rischio di povertà o vi sono già dentro; la ripresa dell’economia minaccia paradossalmente di aggravare le condizioni degli ultimi perché il sistema economico come in tutto il mondo si è polarizzato e sempre più concentra la ricchezza in fasce ristrette della popolazione e impoverisce quelle povere.

Se si allunga lo sguardo un po’ più in là ci si imbatte nella polveriera con la miccia innescata che si chiama Medio Oriente, dove i focolai che possono dar fuoco alla miccia sono molteplici. Per il più appariscente di essi, la Siria, papa Francesco ha di recente invitato la cristianità a pregare, come per il Sud Sudan e il Congo, dal momento che il mondo pullula di tragedie.

Come si reagisce a tutto ciò? Molti, troppi fanno, facciamo finta di niente o restiamo indifferenti, come se fossero tragedie che non ci riguardassero. Gramsci ha parole pesantissime in proposito: «L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia… passivamente, ma opera».

Ed aggiunge: «Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti». Nel cristianesimo non c’è spazio per l’odio; nemmeno per l’indifferenza, però. Noi cristiani la chiamiamo ignavia. Che è colpa gravissima.

Ignavia è voltare la faccia dall’altra parte; è dire che non c’è niente da fare, che si è troppo piccoli per far qualcosa; è domandarsi chi me lo fa fare; è aspettare che a far qualcosa sia qualcun altro, magari Dio al quale affidiamo quel che dovremmo fare noi; ignavia è aspettare che altri si impegnino e nel frattempo farsi i fatti propri. Cristiani sono quelli che devono per forza farsi i fatti altrui. Pure se da soli non si può far gran che, quel che possiamo dobbiamo farlo, almeno per provare a scuotere gli altri. Gli effetti si vedranno dopo, nel tempo.

Nino Lisi
CdB San Paolo – Roma

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