L’unico segno distintivo
Quand’egli fu uscito, Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete, ma come ho già detto ai Giudei, lo dico ora anche a voi: dove vado io voi non potete venire. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Giovanni 13, 31-35).
Il vangelo di Giovanni, a differenza dei sinottici, non riporta il racconto del pane e del vino durante l’ultima cena. Al suo posto è collocata la lavanda dei piedi. Altrove si parla del “pane della vita…”, in brani che sono poi serviti a “reinterpretare” il racconto dell’eucarestia dei sinottici. Il vino compare nel primo dei sette segni descritti da Giovanni, quello delle nozze di Cana ma il significato e il contesto sono diversi da quelli tradizionali dell’ultima cena.
Il redattore del Vangelo ha collocato questi brevi e densi versetti in un “momento” del tutto particolare, in un gioco di luce e di tenebre.
Gesù ha appena lavato i piedi ai discepoli, viene preannunciato il tradimento di Giuda (una pagina certamente scritta come profezia post-eventum per cui si mette al futuro ciò che è già avvenuto) e subito dopo si preannuncia il rinnegamento di Pietro. Questo “comandamento nuovo”, evidentemente, è una pagina in contrasto profondo e radicale con quanto sta avvenendo nei discepoli. Il gruppo sembra sfaldarsi e il legame di amore solidale appare molto fragile.
Ma alle spalle di questa pagina giovannea c’è una realtà pesante, come si evince da altri scritti contemporanei (le tre lettere di Giovanni). La comunità è dilaniata da lotte interne; rivalità, antagonismi, contrapposizioni ne minacciano la stessa esistenza.
E’ in questo contesto che il redattore del Vangelo (che noi chiamiamo Giovanni) inserisce con vigore un preciso “ordine”, un comandamento, un orientamento facendolo risalire a Gesù che certamente più volte aveva ammonito i discepoli e le discepole a instaurare tra di loro relazioni di profonda fraternità e sororità.
Lavare i piedi a qualcuno era considerato un gesto umiliante e non si poteva imporre neanche a uno schiavo giudeo; poteva tuttavia diventare un’espressione molto significativa di fronte ad un padre o ad un maestro. Ricordiamo che in Gv 12,1 lo stesso gesto di lavare i piedi (e asciugare con i capelli) fu fatto a Gesù stesso da una donna: Maria di Betania.
Questo episodio, in versioni leggermente diverse, è riportato da tutti i sinottici (Mt 26,6-13; Mc 14,3-9; Lc 7, 36-38). Sicuramente il gesto dovette suscitare grande impressione nelle prime comunità tanto da far esclamare a Gesù “In verità vi dico che dovunque in tutto il mondo sarà annunziato il vangelo si racconterà pure in suo ricordo ciò che ella ha fatto” (Mc 14,9).
L’azione di quella donna è stato un gesto di amore gratuito nei confronti di Gesù. Egli lo comprese come segno di grande amore: “Le sono perdonati i suoi peccati perché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco”. Cosa avrà imparato Gesù da quella donna? Un piccolo frammento di amore, un chicco di senape… grande come il regno dei cieli.
Nella sua semplicità il nostro maestro si lasciava interpellare dalle istanze di tenerezza incontrate lungo il suo cammino; si lasciava toccare il cuore, ne ascoltava poi il risuonare a volte melodioso, a volte angosciante. Se Gesù ha potuto lavare i piedi ai discepoli (e si badi bene senza essere in mondovisione ma ben consapevole della sua fine tragica) è perché qualcuno, prima, li aveva lavati a lui.
Gesù, a Nazareth, ricevette l’amore di Maria e Giuseppe, dei suoi fratelli e delle sue sorelle che, comprensibilmente preoccupati dalla piega che andava prendendo la sua vita, lo andarono a cercare per riportarselo a casa. Gesù ricevette l’amore delle persone che aveva guarito in Galilea. Quella donna tuttavia lo aveva amato gratuitamente: non era parente, non era amica, ma forse aveva avuto pietà di lui.
Chi ha ricevuto poco amore avrà più difficoltà ad amare. Il maestro allora ripete il gesto appreso da quella donna: lava i piedi ai discepoli. Perché intuiscano almeno che cos’è la pietà.
Gesù è un profeta ed un maestro che guarda lontano. Egli sa che l’amore cresce lentamente, a fatica, tra mille contraddizioni dentro e tra di noi. Egli attese Pietro dopo il suo smarrimento, comprese le debolezze di chi gli stava intorno, non si stancò di seminare. Seppe attendere… Questa è la vera “sapienza” che Dio regala ai suoi testimoni nel mondo. Il suo è stato un amore longanime, vissuto con la fiducia di chi getta un seme e poi affida tutto alla terra, al sole, all’acqua e a Dio.
L’ultimo insegnamento che Gesù da ai discepoli e alle discepole durante la cena pasquale è un insegnamento antico: “Ama il prossimo tuo come te stesso”, che, passato in profondità nell’esperienza e nel cuore di Gesù, diventa: “…che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amati, così amatevi anche voi gli uni gli altri.”.
Gesù è per noi il testimone per eccellenza di una vita impostata secondo la volontà di Dio, una vita vissuta nella direzione dell’amore. Ma anche il suo amore è stato spesso “limitato ed impotente”.
Non ha potuto liberare Giuda dall’angoscia che l’ha portato al suicidio, non ha potuto occuparsi se non di poche persone tra le tante che incontrò. In una società piena di attese, di miseria, di sfruttamento, di malattie è riuscito, con tutto l’amore di cui era capace, a fare ben poco. A Nazareth non riuscì a fare quasi nulla. Con la donna cananea imparò ad andare oltre il suo pregiudizio e fu da lei duramente ripreso per aprirsi ad un amore più grande.
Con tutta probabilità certe espressioni violente e pungenti (che i redattori dei vangeli hanno poi indirizzato contro i loro avversari di turno) appartennero al linguaggio concreto di Gesù: “Satana”, “razza di vipere”, “gente dal cuore indurito” (Marco 8,18), “covo di briganti, “ipocriti”, “generazione malvagia e adultera” (Matteo 12,39) “fino a quando resterò con voi? fino a quando dovrò sopportarvi?” (Matteo17,17), e altre espressioni non esprimono solo l’indignazione, ma anche la difficoltà che lo stesso Gesù esperimentò per vivere con amore tutte le relazioni.
Un maestro fa fiasco quando semina nell’aria. E’, invece, saggio e credibile quando nella sua vita personale vive quell’amore di cui parla. E Gesù parla davvero di sentieri che conosce, di difficoltà con le quali ha fatto i conti nella sua esistenza quotidiana. Non è “un angelo dal ciel disceso per troppo peso”, non è Dio in sembianze umane che compie una passeggiata dimostrativa tra di noi, come certa cristologia trionfalistica ce lo presenta.
Il suo invito all’amore entra nel mio cuore perchè sento che Gesù su questa strada, difficile e liberante, ci ha preceduto.
I discepoli di Gesù (e quelli che anche oggi vogliono riconoscersi tali) non hanno più scuse: hanno visto attraverso le parole e la vita del proprio maestro che è possibile rendere storico l’amore per il prossimo; esso non è “… troppo lontano da te perché tu dica: “chi salirà per noi nel cielo e ce lo recherà e ce lo farà udire perché lo mettiamo in pratica?”(Dt 30,12). Attraverso Gesù ci è stato reso una volta in più comprensibile: “…questa parola è molto vicina a te; è nella tua bocca e nel tuo cuore perché tu la metta in pratica.” (Dt 30,14).
Questo invito ad amarci tra di noi viene spesso usato per invocare un concordismo sociale, ecclesiale ed ecclesiastico piuttosto ambiguo. Ma l’amore deve avere una sua dignità e noi cristiani lo abbiamo svuotato abbracciando e ammettendo nei sacri palazzi o nelle nostre celebrazioni fior di delinquenti vestiti da capi di stato… Gesù non ha cercato l’abbraccio di Erode, di Pilato, dei sommi sacerdoti.
Restare aperti all’amore per me significa anche non semplificare la realtà e prendere posizioni precise nella società. L’amore vuole la giustizia. Il “vogliamoci tutti bene” non mi sembra proprio un “manifesto” evangelico.
Il segno distintivo dei cristiani cattolici è la croce: basta entrare in qualunque chiesa, brulicano di crocifissi. Anche nelle scuole, nelle aule dei tribunali, negli ospedali, nelle case, appese al collo di tutti i ranghi del clero fino ai comuni credenti… Sugli scudi dei soldati di un tempo (in hoc signo vinces), sulle divise dei cappellani militari, negli sterminati cimiteri di guerra dei due conflitti mondiali a ricordarci quanto non siamo stati discepoli di Gesù.
L’unico segno distintivo che Gesù ci ha lasciato è l’amore degli uni/e verso gli altri/e. Nient’altro.
E’ certo meno impegnativo appendersi al collo una croce o portarla in processione che compromettersi facendosi lavare i piedi da una prostituta e accogliendo nel cuore il suo gesto di amore.
Gesù lo ha fatto e non ha mai portato l’amore in processione. Credo che dovremmo tornare a essere discepoli di Gesù più che “cristiani”.
In origine certo le due cose coincidevano ma da tempo si è aperta una profonda ferita. A volte alcuni o alcune sono addirittura rimproverati perché, pur cercando di vivere la solidarietà, la condivisione, non vanno in chiesa o vivono la fede “fuori dalla comunione ecclesiale”. Mi sembra che il piano di Gesù sia completamente rovesciato.
Paolo Sales
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