…e si mise a insegnare loro molte cose
Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’». Era infatti molta la folla che andava e veniva e non avevano più neanche il tempo di mangiare. Allora partirono sulla barca verso un luogo solitario, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città cominciarono ad accorrere là a piedi e li precedettero. Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose (Marco 6, 30-34).
Questi versetti appartengono alla sezione centrale del Vangelo di Marco: è la parte caratterizzata dai vari percorsi di evangelizzazione svolti da Gesù e dal gruppo di apostoli in Galilea e in Giudea.
Il tema del cammino è essenziale e presente nei punti più significativi: fin dall’inizio, quando vengono date le istruzioni ai discepoli su quanto devono portare con sé per strada, in seguito quando diversi episodi importanti avvengono nel corso del cammino tra un luogo e l’altro, infine l’annuncio della passione da parte di Gesù ai discepoli che avviene ” per strada…”
Marco, qui, ci riferisce un momento di pausa in questo continuo cammino: il ritorno degli apostoli dopo una loro missione. Erano partiti da soli, questa volta, sapendo di avere un incarico importante: seguire l’insegnamento di Gesù, il loro maestro, nella predicazione e negli effetti benefici che questa comportava.
Di ritorno dalla predicazione gli apostoli si raccolgono attorno a Gesù. L’esperienza della missione deve essere stata senza dubbio positiva anche se certamente molto impegnativa. In un analogo racconto di Luca (10,17) in cui si narra di un’altra missione, questa volta di 72 discepoli, si dice che “tornarono pieni di gioia”. Certamente la predicazione doveva essere stata efficace.
Lo stile semplice, coerente, l’annuncio del regno fatto con partecipazione, l’ascolto di tutti e tutte, la fiducia che Dio é vicino comunque anche quando non lo si comprende, la concreta possibilità di cambiare vita anche quando si pensa che tutto sia irreparabile, la prassi dell’antirassegnazione…
Chi di noi anche oggi non sarebbe provocato da una predicazione del genere?Chi di noi, non proverebbe entusiasmo nell’annunciare il regno in questo modo? Quale gioia provò Gesù nel constatare che questi semplici pescatori a cui aveva dato fiducia avevano trovato ascolto al loro annuncio, alle parole a cui loro stessi prima avevano creduto?
Era la dimostrazione che il regno dei cieli é accolto dai semplici, che cammina con gambe sue proprie e che non sempre queste gambe sono quelle che pensiamo noi.
Gesù vede la loro stanchezza e la comprende perché era stata anche la sua stanchezza. La stanchezza che si ha dopo ore di ascolto, di dialogo; la fatica di mettersi sempre in discussione al cospetto di Dio, la fatica di stare tra la gente, di non salire sui piedistalli.
Marco non si dilunga nel descrivere la scena, tuttavia la sua essenzialità sottolinea ancora maggiormente quanto avviene: Gesù li invita a riposarsi, a mettersi in disparte dalla folla che “andava e veniva” senza lasciar loro ” neanche il tempo di mangiare”.
Ma la folla li precede e li circonda e il luogo in disparte, solitario, dove sono diretti si popola della sua presenza. Gesù e i discepoli subiscono un vero e proprio assedio. È l’assedio spesso muto, raramente urlante, l’accampamento inerme, solo talvolta rabbioso, della massa dei senza cibo, senza nome, senza volto, senza dignità, della massa dei non riconosciuti che dura da millenni, attraversa tutta la storia.
Cosa voleva tutta questa gente? Cosa cercava da loro? Era solo la sete del regno, dell’ascolto dei loro commenti alla legge e ai profeti che li muoveva dalle città vicine? Certamente non era la curiosità di assistere a dotti commenti anche perché non era ciò che Gesù e suoi amici e amiche offrivano. Forse veramente c’era qualcosa di nuovo nel panorama un po’ normalizzato dei percorsi di fede di allora.
Al tempo di Gesù la situazione in Palestina era quanto mai caotica: l’occupazione romana, il governo collaborazionista di Erode, i gruppi religiosi che indicavano strade molto diverse: i sadducei, grandi sacerdoti; i farisei, quelli che con più scrupolo e amore cercavano di seguire la torah gli zeloti, che sull’onda dei maccabei cercavano nella fede un riscatto politico e rivoluzionario dall’oppressore romano; gli esseni, che nel silenzio delle grotte di Qumram vivevano una esperienza di ascesi e distacco dal mondo; la sinagoga del villaggio…
C’erano poi gli itineranti come Giovanni il battezzatore e come il gruppo di Gesù. La folla era spettatrice dentro questo ambiente molteplice e non seguiva una via particolare, un po’ come oggi. La predicazione di Gesù e dei suoi doveva però aver toccato molti cuori e molti ne aveva certamente guariti.
Ed ecco la preoccupazione del riposo: “venitevene ora in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’ ” (Mc 6,31). Anche nello zelo dell’annuncio, occorre trovare un po’ di tempo per se stessi, un tempo per riposarsi, per ritrovarsi. Il limite che ci contraddistingue é anche un richiamo alla nostra umanità, a non sentirci né semidei, né esseri inutili a noi stessi e agli altri.
Gesù è un maestro attento, coglie la stanchezza degli apostoli e se ne fa carico, li invita a partire sulla barca verso un luogo solitario. Anche gli apostoli dunque non sono supereroi, né viene loro richiesto di esserlo, nonostante l’importanza dell’incarico loro affidato. Pur nell’entusiasmo dell’essere riusciti nella loro missione, hanno bisogno di cibo e riposo in un luogo solitario.
Cibo e luogo solitario, ristoro per il corpo e la mente per poter continuare ad essere attivi, presenti a se stessi e ripartire, rigenerati nel fisico e nello spirito, di nuovo disponibili alla fatica del viaggio e delle relazioni. Era una condizione per gli apostoli, ma anche per tutti/e noi: nonostante la volontà e il desiderio di essere attivi, nonostante il coinvolgimento nei rapporti e nella vita con le altre/i, nonostante i vincoli abbiamo bisogno di riposo, di pause.
Momenti che richiedono di staccarci dalla confusione, dal “va e vieni” pressante di tutti gli impegni, dal peso delle responsabilità che ci siamo assunte, anche semplicemente dalle fatiche quotidiane per recuperare energie, per ridare vitalità al nostro agire, per ritrovare noi stessi. Gesù se ne rendeva ben conto e cercava momenti di pausa per sè e per i suoi discepoli.
Tuttavia Marco ci riporta un rovesciamento immediato della situazione: là dove avrebbero potuto trovare ristoro, in disparte, vengono preceduti e accolti nuovamente da una moltitudine di folla. Dei discepoli non viene detto nulla, forse non riescono a restare in “scena” ancora, un’altro bagno di folla non lo sopporterebbero, la stanchezza e la fatica li sopraffanno.
La folla è lì e Gesù la vede. Vedere la folla è il primo atto che compie in questa circostanza. Si accorge della sua presenza, ne prende atto. Ci sono molti che dell’assedio della folla non si accorgono neanche. Hanno sviluppato uno sguardo selettivo, che oltrepassa “l’assedio”. Gesù non solo si accorge della folla: per essa si commuove. Più precisamente, Gesù ha un moto viscerale. La compassione di Gesù non è lacrimosa commozione, è una forte passione che muove all’indignazione e all’azione.
Gesù percepisce la massa che si accalca come una moltitudine allo sbando. Sono come pecore senza pastore; chi si interessa di loro? A chi stanno a cuore? Chi se ne prende cura? La scelta della prima lettura, il “guai” di Geremia sui pastori che non si curano del gregge, instaura un nesso illuminante, offre una chiave interpretativa per i cinque versetti di Marco.
Allora come adesso, la sorte di intere moltitudini lascia indifferenti coloro che – anche uomini di religione e di Chiesa – dovrebbero averla a cuore, ne sono responsabili, da loro troppo spesso dipendendo. Ma le masse, si sa, non sono amate, al più corteggiate se sono docili, addomesticabili, se sono disposte a indossare una stessa divisa e a cantare con una voce sola.
Le folle che inseguivano il gruppo di Gesù erano anch’esse senza identità. Politicamente non esisteva più un governo che rispecchiasse l’identità nazionale; religiosamente la classe sacerdotale era spesso compromessa con il potere dell’occupante e poco o nulla si interessava delle “folle” se non per riscuotere le gabelle.
Dove trovare qualcuno che stabilisse un ponte tra quel Dio del tempio, velato dal fumo degli olocausti e il Dio dei profeti di un tempo che aveva smosso i cuori di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, che aveva condotto il Suo popolo dalla terra di schiavitù dell’Egitto alla terra promessa in cui abitare da donne e uomini liberi e autodeterminati. Tanto smarrimento, tanta confusione. E poi i problemi di tutti i giorni, le malattie, i disagi. Questa era la folla che chiedeva di incontrare Gesù e i suoi discepoli e discepole.
Gesù dunque in questo caso non si mette a guarire i malati e a liberare gli impossessati. Piuttosto, insegna alla gente molte cose. A differenza dei capi, e di ogni risma di gente perbene, Gesù tratta tutti quegli sbandati da amici, non da subordinati.
Insegnare è gesto alto: è riconoscimento della dignità e della grandezza dell’altro, è atto frontale che pone viso a viso, che mette coloro che ascoltano a parte di cose importanti; insegnare spoglia del potere e lo ridistribuisce; essere destinatari di un insegnamento apre alla coscienza e all’autonomia, fa alzare in piedi le persone. Gesù, insegnando, restituisce alla folla l’identità di uomini e donne.
Il tema delle pecore e del pastore era caro alla letteratura profetica di Israele. In Ezechiele si legge: “…io salverò le mie pecore ed esse non saranno più abbandonate alla rapina; e giudicherò fra pecora e pecora. E susciterò sopra d’esse un solo pastore, che le pascolerà: il mio servo Davide; egli le pascolerà, egli sarà il loro pastore.” (Ez. 34, 22-23).
Alcuni esegeti sostengono anche che il cantico del servo sofferente di Isaia 53 si riferisca al popolo, nella interpretazione collettiva. Era una generazione senza identità, o, per tornare al linguaggio biblico, senza pastore. Il pastore non é inteso come una sorte di duce che incolonni il gregge ma come un “bel pastore” (traduzione letterale di “buon pastore”) che ama le sue pecore, le ammaestra, le “guida per il giusto cammino” (Salmo 23).
Un pastore buono non abbandona mai le sue pecore, quando qualcuno ha bisogno del suo sostegno e della sua guida, del suo insegnamento e del suo “amore”, lui è presente.
Noi, come gli apostoli, abbiamo grandi entusiasmi, ma pure limiti e stanchezze; tuttavia, anche noi possiamo affidarci ad un maestro buono, che accogliendoci così come siamo, ci “insegna molte cose” e ci invita a lasciarci commuovere da chi incontriamo sulla nostra strada per cercare di seguire, con le nostre poche risorse, l’esempio di Gesù.
L’immagine di Gesù insegnante e nello stesso tempo partecipe della situazione della folla acquista un significato particolare. Egli, con i suoi compagni e compagne, era immerso nella vita della sua gente fino al punto di “provarne compassione” e al tempo stesso non viveva in passività ma condivideva i doni ricevuti da Dio.
Quante volte anche noi ci sentiamo come pecore senza pastore? Quante volte avremmo voglia di incontrare qualcuno o qualcuna che sedendosi al nostro fianco ci “insegni molte cose”?
Paolo Sales
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