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- Senza muri:"Non
c'é più né Giudeo né Greco ..."
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Torino, 3 luglio 2000
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- Cari amici,
- sono, purtroppo, impossibilitato ad esser con voi nel momento
in cui ci si interroga insieme sul grande tema dei diritti e
delle discriminazioni che ancora oggi subisce chi vive la condizione
omosessuale. Non voglio però mancare al momento "alto"
che ci è offerto da questa opportunità ed è
per questo che provo a consegnarvi poche e disordinate riflessioni.
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- Da sempre, personalmente e come Gruppo Abele, penso che una
democrazia che non tuteli e promuova i diritti umani non si presenti
come vera democrazia. Quest'ultima significa "governo del
popolo", ovvero uguaglianza dei rapporti sociali, dei diritti
civili e delle opportunità di espressione e di partecipazione
alla vita sociale di ogni persona che forma quell'eterogenea
e multiforme comunità di singoli definita popolo.
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- Detto in altri termini: non è democratico un Paese
che non rispetti le minoranze e i loro diritti sociali, culturali,
di espressione, di dissenso, di partecipazione alla vita sociale
e di organizzazione. Non solo: la democrazia di una società
è tanto più alta e più vera quanto più
sono tutelate, riconosciute e valorizzate le minoranze (siano
esse tali per ragioni politiche, etniche, culturali, religiose,
sessuali od altro ancora). Significa intrecciare cosi profondamente
i nostri diritti con i doveri al punto da riconoscere come preciso
dovere - delle istituzióni pubbliche o private e di ogni
cittadino - il rispetto del diritto dell'altro, di ogni altro.
Solo così il diritto del singolo cessa di essere rivendicazione
individuale o tutela di un privilegio per diventare tassello
indispensabile di una giustizia più ampia: capace di tenere
insieme i tanti beni comuni che compongono il convivere nella
stessa comunità proprio per questo definita "civile".
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- Purtroppo sono ancora tante le timidezze, le prudenze e le
tortuosità che si frappongono su questo sentiero. La limpidezza
dei ragionamenti e delle affermazioni di principio diventa così
- sul piano della pratica - non trasparente, invalidata ed incapace
di diventare efficace.
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- Credo che anche rompere questi meccanismi resti preciso dovere
della partecipazione democratica. Significa abilitarsi al compito
- a volte davvero scomodo e controcorrente - della denuncia,
del coraggio della parola e della pazienza umile ma tenace che
ci è chiesta dal prezioso servizio delia "resistenza",
perché non si perda quanto già acquisito e perché
si possa consegnare ai nostri figli un mondo più umano
perché più giusto.
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- Siamo chiamati perciò a "resistere" perché
mai nessuna persona venga liquidata con una definizione, con
una etichetta o - peggio ancora - identificata con un "problema".
Siamo chiamati a costruire - insieme - quelle condizioni perché
i principi morali che guidano le diverse componenti della nostra
società non diventino affermazioni "lontane"
o "ostili" nei confronti delle persone che cercano
reciprocità, rispetto e giustizia. Non dimentichiamolo
mai perché è un rischio per tutti: troppo coinvolti
nel difendere le nostre tante identità, ci si dimentica
di incontrare l'altro, quell' "Altro" che non può
mai essere inteso come minaccia per la propria identità
(culturale, politica, di fede religiosa...), ma solo e sempre
come compagno di viaggio senza il quale il cammino non ha senso,
senza il quale - per chi condivide i riferimenti al Dio di Gesù
Cristo - il Vangelo non diventa Parola che libera e che salva.
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- Non ci si può abituare alle tante discriminazioni
che ogni giorno ci affiancano. L'impegno per superare alcune
forme di esclusione sociale non può perdere di vista il
più ampio orizzonte di ingiustizie che feriscono le nostre
democrazie ed il mondo intero. Proprio perché la verità
è sinfonica, siamo chiamati - sempre - ad uno sforzo a
360 gradi; ci è chiesto, in altre parole, di unire le
nostre forze e di uscire dai nostri recinti perché l'impegno
degli uni torni a benefìcio di tutti e non solo dei diretti
interessati. Solo a queste condizioni riusciremo ad aggredire,
con l'elemento superficiale che nega democrazia e giustizia,
anche le cause sociali, culturali e politiche che mantengono
quelle condizioni di non uguaglianza nei diritti e nei doveri.
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- Un'ulteriore riflessione. E un dato inevitabile: discriminazioni,
diseguaglianza e ingiustizie creano, non poche volte, rabbia
e rancore in chi subisce queste condizioni. Non confrontarsi
con questi dati è certamente miopia, ma anche superficialità
colpevole di chi non prova mai a mettersi nei panni dell'altro,
di colui che è vittima e che paga sulla propria pelle
discriminazioni, giudizi affrettati e negazioni di speranza.
Dobbiamo fare in modo, di conseguenza, che l'impegno per una
società più attenta ai diritti di ognuno impari
anche a confrontarsi con questi sentimenti di rabbia, di rancore
e di sofferenza comunicate con le uniche parole che si riescono
a trovare. Vuoi dire spendersi concretamente perché l'errore
degli uni non legittimi altri nuovi errori; significa rompere
quella spirale viziosa che incatena gli uni alle ingiustizie
degli altri in una logica vendicativa incapace di generare il
nuovo della giustizia.
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- Solo se sapremo affiancare alla rabbia dell'ingiustizia la
forza della nonviolenza - paziente, umile, tenace e aperta alla
schiettezza di un parlare che sa dire «sì, si, no,
no», (Matteo 5,37) - saremo in grado di costruire quella
casa comune capace di rileggere ogni diversità come ricchezza
per fare della convivenza una vera scuola di reciprocità.
Con questo spirito scelgo, ancora una volta, di stare dalla parte
di chi «ha fame e sete di giustizia» in un percorso
che vede credenti e laici impegnati insieme per una società
più a misura d'uomo e per una Chiesa sempre più
obbediente al suo Maestro e sempre più capace di saldare
l'evangelizzazione alla capacità di ascolto, di accoglienza
di ogni persona e di difesa dei diritti di chi è più
calpestato.
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- Quando, nel settembre 1983, Ferruccio - insegnante -decise
che gli era impossibile continuare a vivere a causa delle umiliazioni
e discriminazioni, continue e violente, determinate dalla sua
condizione omosessuale, decidemmo che l'impegno del Gruppo Abele
sulla questione omosessuale doveva crescere e aprirsi a nuovi
e più incisivi segni di speranza. Accogliere al nostro
interno un gruppo di omosessuali credenti e permettere loro gli
spazi necessari per il funzionamento ordinario della loro associazione
(Associazione culturale Davide e Gionata), ci apparve come doveroso:
un piccolo contributo per costruire amicizia e collaborazione
e per rompere separazioni tra impegni diversi accomunati dall'unico
desiderio di una società - finalmente -"senza muri",
in cui «non c'è più giudeo ne greco; non
c'è più schiavo ne libero; non c'è più
uomo ne donna» (Galati, 3,28).
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- Per queste ragioni oggi vogliamo continuare il cammino: per
perseverare in quel percorso già intrapreso da alcuni
(laici e credenti) e perché crescano ancora quanti desiderano
vivere senza prevaricazioni, senza "muri" che separano
e che allontanano e senza le violenze che nascono dalle ingiustizie
e che a volte si alimentano dalle stesse ingiustizie.
Don Luigi Ciotti
(Gruppo Abele, Torino)